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Vi riportiamo di seguito un interessante articolo che commenta una recente sentenza della Corte di Cassazione a sezione unite. Una sentenza giusta ed importante, che ribadisce la necessità dell’iscrizione all’albo professionale.

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Dietro le società di servizi non si possono nascondere consulenti privi del titolo di commercialista se questi finiscono per svolgere l’attività del vero e proprio professionista. E così vale anche per i consulenti del lavoro. Diversamente si finisce per commettere il reato di esercizio abusivo della professione.

Stretta su chi si fa scudo di una società per svolgere, al suo interno e senza apparire in prima persona, attività di commercialista: a metterlo nero su bianco una sentenza di poche ore fa della Cassazione. Secondo la Corte, rischia il carcere chi pur non avendo alcuna abilitazione, costituisce una società inserendo nell’oggetto tutte le attività tributarie normalmente riservate ai commercialisti: elaborazione dati, raccolta di fatture attive e passive, registrazione corrispettivi di costi e ricavi, offerte.

Nel caso di specie un uomo aveva svolto, in maniera professionale e continuativa, una serie di atti che venivano univocamente individuati di competenza specifica di professione per la quale, tuttavia, era privo del titolo abilitativo. È stato pertanto condannato per il reato di esercizio abusivo.

Le stesse riflessioni – si legge in sentenza – possono essere svolte con riferimento allo svolgimento di attività tipiche della funzione di consulente del lavoro, per le quali bisogna pure essere in possesso del titolo abilitativo.

Le Sezioni Unite della Cassazione

Questione controversa, fonte di contrasto giurisprudenziale, è quella relativa all’individuazione degli atti che integrano l’abusivo esercizioperseguito dalla norma. A un primo orientamento restrittivo, che riteneva si dovessero prendere in considerazione solo gli atti previsti da apposita norma come di competenza esclusiva, cosiddetti riservati, di una data professione, ha fatto seguito un’interpretazione estensiva, fatta propria dalle Sezioni Unite. La Cassazione, in particolare, ha ritenuto che a questi si affianchino anche gli atti cosiddetti caratteristici della professione, quelli cioè che, seppur non di competenza esclusiva, sono univocamente individuati e strumentalmente connessi a quelli riservati. Tali atti, laddove vengano posti in essere dal soggetto non abilitato, secondo modalità continuative e professionali, sono potenzialmente in grado di creare l’oggettiva apparenza, per il terzo inconsapevole, di trovarsi di fronte a un professionista regolarmente abilitato e come tali possono integrare il reato di esercizio abusivo della professione.

LA SENTENZA

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 24 maggio – 27 giugno 2016, n. 26617
Presidente Rotundo – Relatore Petruzzellis

Ritenuto in fatto

1. La Corte d’appello di Genova, con sentenza del 04/12/2014, ha confermato l’affermazione di responsabilità di P.M. in ordine al reato continuato di cui all’art. 348 cod. pen. commesso tra il (omissis) ed il (omissis) , previo accertamento della prescrizione dei precedenti episodi e conseguente rideterminazione della sanzione.
Nell’imputazione si contesta all’interessato lo svolgimento di attività riservata a commercialisti ed a consulenti del lavoro, titoli professionali mai conseguiti.
2. Ha proposto ricorso la difesa di P. con il quale si denuncia il vizio di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen. consistente, quanto all’azione riguardante lo svolgimento di attività quale commercialista, nella mancata valutazione della carenza di dolo, conseguente all’incertezza nelle determinazioni della norma che disciplina l’esercizio delle professioni, che integra il precetto penale, valutata in relazione alla natura e forma dell’attività svolta dall’interessato attraverso una società, il cui oggetto ricomprendeva proprio le attività di consulenza prestate. Tali elementi di fatto vengono valorizzati a sostegno di una

buona fede nell’interpretazione delle norme, che escluderebbe il dolo.
Quanto all’attività del consulente del lavoro si circoscrive la condotta ad un unico atto, di mera richiesta di informazioni presso l’Ispettorato del lavoro, che non realizza la condotta tipica del reato.
3. Con memoria depositata il 02/03/2016 si richiama la natura degli atti compiuti, che sarebbe riservata alla competenza specifica e non esclusiva del commercialista, in forza del d.P.R. 27/10/1953 n. 1067, analogamente a quanto previsto anche dalla successiva disposizione del D.Lgs. 28 giugno 2005, n. 139.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è inammissibile per genericità e manifesta infondatezza.
2. Quanto al primo profilo deve sottolinearsi che la pronuncia impugnata ha limitato l’accertamento di responsabilità ai reati compiuti dopo l’approvazione del D.Lgs. 28 giugno 2005, n. 139, nel presupposto che proprio la più compiuta individuazione contenuta in tale provvedimento degli atti riservati ai dottori commercialisti ed agli esperti contabili, attraverso una distinzione tra gli atti consentiti alle due categorie professionali, dia conto in maniera analitica delle attribuzioni proprie di entrambe le attività.
Cosicché il presupposto formale su cui è fondato il ricorso -sostanziale equiparazione delle attività consentite nelle duenormative succedutesi nel tempo in materia – risulta testualmente smentito dall’interpretazione che di tali disposizioni ha operato la pronuncia della Corte di merito.
In relazione alle condotte realizzate in tale arco temporale proprio per l’analiticità dei riferimenti non è profilabile il richiamo ad una insufficiente chiarezza della norma richiamata dalla disposizione penale applicata, e quindi la correlata astratta possibilità di un difetto di dolo sul punto. Altrettanto irrilevante a tal fine risulta il richiamo alle modalità attraverso le quali si è espletata l’attività di P. , per il tramite la partecipazione ad una società fornitrice di servizi, poiché quel che rileva è che colui il quale ha offerto la prestazione professionale, diretta o mediata attraverso lo schermo societario, sia in possesso dei requisiti professionali idonei ad assicurarle.
P. , colui il quale ha garantito le prestazioni contabili richiamate nel capo di imputazione risulta pacificamente non in possesso del titolo di studio ed abilitativo idoneo alla prestazioni – in tema di tenuta di servizio elaborazione dati, raccolta fatture attive e passive, registrazione corrispettivi, liquidazione Iva, liquidazione di situazioni periodiche con prospettive di costi e ricavi – offerte alla parte lesa.
Il richiamo svolto nel ricorso alla pronuncia della Corte dilegittimità, nella sua più autorevole composizione in argomento (Sez. U, n. 11545 del 15/12/2011 dep. 23/03/2012, Cani, Rv. 251820) risulta così del tutto eccentrico rispetto all’oggetto del giudizio, posto che nella specie il P. ha incontestabilmente svolto, in maniera professionale e continuativa, una serie di atti che sono univocamente individuati, sulla scorta della normativa applicabile al periodo in contestazione, di competenza specifica di professione per cui non era in possesso di titolo abilitativo, sicché proprio in forza dei principi evocati dalla sentenza richiamata, sussistono entrambe le condizioni che sostengono l’accertamento della consumazione del reato contestato.
Tali elementi risultano con chiarezza posti in luce nella sentenza impugnata, attraverso il richiamo alle acquisizioni processuali con il cui contenuto il ricorrente non si confronta, riproponendo censure di merito.
3. Nello stesso senso eccentriche rispetto a quanto accertato nella sentenza risultano le deduzioni svolte con riferimento allo svolgimento di attività tipiche della funzione di consulente del lavoro, per le quali anche l’interessato era privo di titolo abilitativo; rispetto ad esse nel ricorso ci si limita alla pretesa di una estemporaneità dell’attività, non riconducibile allo svolgimento di alcuno specifico atto riservato al professionista, contrastata daquanto accertato in sentenza sulla base di individuati elementi di prova, i cui risultati non sono sottoposti a contestazione.
Sul punto, conseguentemente, risulta formulata una censura che denota la mancanza di correlazione con la sentenza oggetto di impugnazione, e ne rivela la manifesta infondatezza.
4. All’accertamento di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma indicata in dispositivo in favore della Cassa delle ammende, in applicazione dell’art. 616 cod. proc. pen..

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.500 in favore della Cassa delle ammende.

(fonte: laleggepertutti.it)

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