Dal 25 novembre 2015 ai dirigenti sanitari e ai medici del Servizio sanitario nazionale si applicheranno le norme vincolistiche sulla durata massima e media dell’orario di lavoro settimanale e sul riposo giornaliero
La direttiva europea 93/104 del 23 novembre 1993, concernente l’organizzazione dell’orario di lavoro, come modificata nel 2000 dalla direttiva 2000/34, è stata attuata in Italia con il D.Lgs. n. 66/2003, di poco antecedente alla revisione della normativa dell’Unione contenuta nella direttiva 2003/88 del 4 novembre 2003.
Il regime speciale della dirigenza sanitaria
Il risultato di questo processo legislativo ha suscitato nel nostro ordinamento problemi di coordinamento con quelle norme che regolavano i lavori discontinui e d’attesa, soprattutto con riferimento alla nozione di “orario di lavoro” fatta propria dall’art. 1, comma 2, lett. a), D.Lgs. n. 66/2003 (“qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”).
In modo particolare la materia è stata oggetto di un lavorìo intenso, soprattutto da parte della contrattazione collettiva, per quanto concerne il trattamento retributivo, ma soprattutto normativo, tipico di alcune mansioni, allo svolgimento delle quali è coessenziale la reperibilità sul luogo di lavoro o, comunque, la presenza nello stesso non connotata da lavoro attivo, quali ad esempio la guardiania, diurna o notturna, e, specificamente nel settore sanitario, la guardia medica.
I problemi da risolvere riguardavano soprattutto la determinazione della durata massima e media dell’orario di lavoro (art. 4 D.Lgs. n. 66/2003) e la fissazione del riposo giornaliero (art. 7 D.Lgs. n. 66/2033, come modificato dall’art. 41, comma 4, D.L. n. 112/2008: “Ferma restando la durata normale dell’orario settimanale, il lavoratore ha diritto a undici ore di riposo consecutivo ogni ventiquattro ore. Il riposo giornaliero deve essere fruito in modo consecutivo, fatte salve le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata o da regimi di reperibilità”).
Per i medici del settore privato la contrattazione collettiva di categoria si è rivelata adeguata alla normativa europea, regolamentando e retribuendo, ad esempio, il servizio di guardia medica nelle case di cura private secondo quanto previsto dalle norme contrattuali riguardanti il normale orario di lavoro.
Ovviamente ciò comporta un aggravio sensibile del costo del personale rispetto ad una retribuzione su base forfetaria ed indennitaria e all’esclusione di questa modalità di esecuzione del lavoro dall’ambito normativo dell’orario normale di lavoro.
Ad evitare l’aggravio di costi, nel settore pubblico è intervenuto il legislatore, stabilendo, con l’art. 41, comma 13, D.L. n. 112/2008, che al personale delle aree dirigenziali degli enti e delle aziende del Servizio sanitario nazionale, in ragione della qualifica posseduta e delle necessità di conformare l’impegno di servizio al pieno esercizio della responsabilità propria dell’incarico dirigenziale affidato, non si applicano le disposizioni di cui ai citati artt. 4 e 7 e affidando alla contrattazione collettiva la definizione di “modalità atte a garantire ai dirigenti condizioni di lavoro che consentano una protezione appropriata ed il pieno recupero delle energie psico-fisiche”. L’art. 17, comma 6-bis, D.Lgs. n. 66/2003, inoltre, dal giugno 2008 escludeva il personale del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale dall’ambito di efficacia delle disposizioni generali in materia di riposo giornaliero, perpetuando per esso l’efficacia delle previgenti disposizioni contrattuali in materia di orario di lavoro, seppure nel proclamato ” rispetto dei princìpi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori”.
La posizione della Corte di Giustizia
Ma questa esclusione si è scontrata con l’opposta interpretazione del giudice europeo, secondo cui la direttiva 93/104 (e, ora, la 2003/88) “va interpretata nel senso che un servizio di guardia che un medico svolge secondo il regime della presenza fisica in ospedale deve essere considerato come rientrante interamente nell’orario di lavoro, anche qualora all’interessato sia consentito di riposare sul luogo di lavoro durante i periodi in cui non è richiesta la sua opera” (Corte Giust. Ue 9 settembre 2003, C-151/02, sentenza Jaeger). La Corte di Lussemburgo aveva già avuto modo di rilevare (Corte Giust. Ue 3 ottobre 2000, C-303/98, sentenza Simap) come tale direttiva ricomprende nell’orario lavorativo qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni o prassi nazionali, e che la medesima nozione va intesa in opposizione al periodo di riposo, ciascuna delle due nozioni escludendo l’altra. E l’obbligo imposto ai medici di essere presenti e disponibili sul luogo di lavoro per prestare la loro opera professionale deve essere considerato rientrante nell’esercizio delle loro funzioni.
Per la Corte nell’orario lavorativo deve essere ricompreso qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia a disposizione del datore.
Questa interpretazione, del resto, è conforme all’obiettivo del diritto dell’Unione, che è quello di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori, facendo in modo che essi possano beneficiare di periodi minimi di riposo e di adeguati periodi di pausa.
Le nozioni di “orario di lavoro” e di “periodo di riposo”, secondo la Corte di Giustizia, non possono essere interpretate in funzione delle prescrizioni delle varie normative degli Stati membri: sono nozioni di diritto comunitario, che occorre definire secondo criteri oggettivi, facendo riferimento al sistema e alla finalità della direttiva, dal momento che solo così può assicurarsi la sua piena efficacia e l’applicazione uniforme di queste due nozioni.
In buona sostanza, si pone in contrasto con la normativa europea ogni norma o clausola contrattuale che, non ricomprendendo nel periodo di lavoro quello dispeso sul luogo di lavoro in attesa di erogare eventuali prestazioni, si risolva nella riduzione del periodo di riposo di undici ore o nel superamento della durata massima o media dell’orario di lavoro. La conseguenza è che un lavoratore che abbia dovuto osservare un orario di lavoro caratterizzato da una durata media settimanale superiore a quella prevista dalla normativa europea può avvalersi del diritto dell’Unione per far dichiarare la responsabilità delle autorità dello Stato membro interessato, al fine di ottenere il risarcimento del danno subìto (Corte Giust. Ue 25 novembre 2010, C-429/09, sentenza Fuss).
Cosa cambia dal 25 novembre 2015
Per sottrarsi a queste sanzioni, oltre ovviamente a quelle applicabili direttamente agli Stati membri per l’inottemperanza alle direttive (a carico del nostro Paese è aperta una procedura di infrazione), l’art. 14 della Legge europea 2013-bis (L. n. 161/2014) ha stabilito che, decorsi dodici mesi dalla sua entrata in vigore, erano abrogati i su citati articoli 41, comma 13, e 17, comma 6-bis, D.Lgs. n. 66/2003. I dodici mesi scadono il 24 novembre prossimo sicché, dal giorno successivo, il personale del Servizio sanitario nazionale – dirigenti sanitari e medici – sarà assoggettato al regime generale del riposo giornaliero.
Una prima conseguenza dell’abrogazione della deroga legislativa sarà, se non si vogliono ridurre i livelli d’assistenza, un incremento delle dotazioni organiche, che consenta di contemperare la nuova organizzazione del lavoro con l’erogazione delle necessarie prestazioni assistenziali
Sul piano del controvertere individuale, tuttavia, la citata “sentenza Fuss” costituisce, insieme ad altre decisioni, un precedente rilevante e attinente. In quella vicenda un vigile del fuoco, occupato nel servizio di pronto intervento rientrante nel settore pubblico, il quale aveva osservato un orario di lavoro caratterizzato da una durata media settimanale superiore al limite previsto dalla direttiva, chiedeva il risarcimento del conseguente danno subìto. La Corte di Giustizia ricordava che la direttiva 2003/88 intende fissare prescrizioni minime destinate a migliorare le condizioni di vita e di lavoro mediante il ravvicinamento delle normative nazionali riguardanti, in particolare, la durata dell’orario lavorativo; tale armonizzazione è intesa a garantire una migliore protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, facendo loro godere periodi minimi di riposo – giornaliero, settimanale e annuale – nonché periodi di pausa adeguati e prevedendo pure un limite massimo per la durata settimanale del lavoro. Rilevava però che la direttiva non contiene alcuna disposizione relativa alle sanzioni applicabili in caso di violazione delle prescrizioni minime da essa stabilite e, pertanto, non contiene alcuna particolare disposizione attinente al risarcimento del danno eventualmente subìto dai lavoratori a causa di una sua violazione.
Il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto dell’Unione ad esso imputabili è, tuttavia, inerente al sistema dei trattati sui quali quest’ultima è fondata. L’obbligo di risarcimento si applica dunque, ad avviso del giudice europeo, ad ogni ipotesi di violazione del diritto dell’Unione, a prescindere dalla pubblica autorità che l’abbia commessa e a prescindere da quella cui, in linea di principio, incombe, ai sensi della legge dello Stato interessato, l’onere di tale risarcimento (nello stesso senso: Corte Giust. Ue 30 settembre 2003, C-224/01, sentenza Köbler; Corte Giust. Ue 4 luglio 2000, 424/97, sentenza Haim; Corte Giust. Ue 1° giugno 1999, C-302/97, sentenza Konle). L’applicazione delle condizioni che consentono di stabilire la responsabilità degli Stati membri per danni causati ai singoli da violazioni del diritto dell’Unione deve essere operata, in linea di principio, dai giudici nazionali (nello stesso senso: Corte Giust. Ue 12 dicembre 2006, C-446/04, sentenza Test Claimants in the FII Group Litigation); ad essi spetta, in altri termini, verificare se sussiste un nesso causale tra la violazione della direttiva e il danno che i lavoratori assumessero derivante dal mancato godimento del periodo di riposo di cui avrebbero dovuto beneficiare se la durata dell’orario di lavoro e dei riposi fosse stata rispettata.
Non è difficile prevedere che l’abbandono dell’area di specialità ricavata per i dirigenti sanitari e i medici del settore pubblico non sarà indolore, dal momento che già si ha notizia che le organizzazioni sindacali di categoria stanno orientando gli interessati a promuovere le azioni giudiziarie per ottenere il risarcimento del danno alla salute. In questo caso non della salute pubblica ma di quella di chi ad essa presiede.
(fonte: Guida al Lavoro del Sole 24 Ore)